sabato 4 giugno 2011

Massimo Donà / ABITARE LA SOGLIA

























INTERVISTA

Professor Donà, quale approccio al cinema propone?
Nulla a che fare con i soliti commenti filosofici alle trame dei film. Ho invece voluto considerare il cinema come evento filosofico rilevante di per sé. Insomma, un modo per riflettere sul cinema in quanto “esperienza” specifica e irriducibile che sembra mettere radicalmente in questione il nostro comune modo d’essere.

Qual è la tesi centrale del suo libro? Cos’è il cinema per Massimo Donà?
Il cinema è la soglia cui ho appena fatto riferimento. La “soglia” che troppo spesso la filosofia ci ha invitati superare. D’altro canto, già le sirene avevano cercato di convincere Ulisse a fare scalo sulle rive della propria isola. E dunque a compiere il salto risolutivo, che sembrava poter garantire all’eroe omerico la conoscenza totale e definitiva. Il cinema indica dunque una condizione esperienziale analoga a quella guadagnata dall’eroe omerico, che, riconosciuto l’inganno, non supera la soglia fatale. Ma si fa legare
all’albero della nave, con le orecchie libere – sì da poter godere delle risonanze dell’infinito cantato dalle sirene, senza illudersi di poterlo possedere in virtù di un salto oltre il limite che caratterizza appunto la nostra condizione.

Lei è noto al grande pubblico per aver scritto tra i molti libri Filosofia del vino, poi oltre ai sui testi più impegnativi di metafisica dura e pura si occupato di magia, musica… oltre ad essere un eccellente trombettista jazz: quali allora i suoi prossimi progetti?
Innanzitutto, una suite musicale dedicata ad Andrea Emo, uno dei più grandi filosofi del Novecento, che sarà la base dello spettacolo che quest’estate porterò in giro per l’Italia con David Riondino (con
il quale sto registrando il relativo cd). E poi sto cercando di chiudere un lavoro che mi sta impegnando da anni, Teomorfica, una sorta di sistema di estetica che vorrebbe rideterminare le vicende dell’arte occidentale attraverso l’individuazione delle sue tre direttive fondamentali.

fonte: www.filosofia.it

Il tempo della verità di Massimo Donà

Massimo Donà - L'apparire della Cosa - La Fenomenologia Eretica Di Luca Taddio

giovedì 27 dicembre 2007

IL MISTERO DELL'ESISTERE



PROLOGO
Riferendosi all’opera di Giorgio De Chirico, René Magritte ebbe a dire un giorno che si trattava di “una nuova visione, nella quale lo spettatore ritrova il suo isolamento e intende il silenzio del mondo”. L’artista belga
(nato nel 1898 e morto nel 1967) incontrò l’opera del teorico ed inventore della Metafisica nel 1925; e da allora per lui nulla sarebbe più stato come prima. Il giudizio appena citato venne formulato da Magritte nel corso di una conferenza tenuta il 20 novembre 1938 al Musée Royal des Beaux-Arts di Anversa. Poche parole in cui egli sarebbe riuscito a sintetizzare il cuore
più profondo della propria prospettiva teoretica; esplicitando altresì il presupposto di una articolata e instancabile riflessione, assolutamente imprscindibile per chiunque volesse o voglia ancora tentare di comprendere non solo, o meglio non tanto, la forma della sua produzione artistica, quanto la necessità che si agita, ossia agisce ossessiva ed implacabile, in
ogni determinazione della sua pratica pittorica. D’altro canto, riteniamo che proprio in questa folgorante ed enigmati-
ca espressione sia racchiuso il senso più profondo di una prospettiva che da tempo andava indelebilmente segnando buona parte del pensiero occidentale. In ogni caso, prima di confrontarci direttamente con la produzione teorica magrittiana, cercheremo di fare chiarezza sul senso del fin troppo spesso evocato legame tra la produzione pittorica dell’artista belga e uno
dei più straordinari topoi speculativi del Novecento – ossia, la scrittura psicoanalitica di S. Freud (anche nella produzione teorica freudiana, d’altronde, e con non minor radicalità, un’articolata e complessa vicenda storica avrebbe finito per attingere la propria akmé).

giovedì 4 ottobre 2007

INTERVISTA A MASSIMO DONA'di Luca Taddio

Nella progressiva estetizzazione che le nostre società stanno conoscendo in questi ultimi anni, quale può essere il significato di una riflessione filosofica di un autore che non è un filosofo, ma un pittore, come Magritte?

Può essere molto, molto utile. E innanzi tutto per evitare che si continui a confondere l’arte con l’ornamento, con il ‘piacevole’, con qualcosa di semplicemente ‘bello’ nel senso di sensibilmente gradevole. D’altro canto un ben preciso filone dell’estetica occidentale (a partire da Aristotele) avrebbe finito per ridurre l’arte e l’estetico a qualcosa di relativo al gusto. Intendendola come una mera esperienza del sentire. A questo mira d’altronde l’estetizzazione diffusa; ovvero, a rendere gradevole la nostra vita, a far sì che l’ambiente in cui ci troviamo ad esistere sia in qualche modo stimolante e gratificante al senso (vuoi della vista, vuoi dell’udito….). Da cui una quantità di immagini tecnicamente ben confezionate, anzi spesso molto raffinate e ben-fatte. Di contro a questa tendenza prevalente, Magritte rivendica dunque un altro senso del fare artistico. Che nulla ha dunque a che fare con l’aisthesis, ovvero con la “sensibilità”. O anche, con la buona fattura; con l’armonia, la piacevolezza. Un senso in virtù del quale viene assegnato all’arte in un ruolo assai complesso: consentendoci di fare finalmente i conti con il vero e proprio esistere dell’esistente. Un’arte, cioè, specificamente impegnata ad illuminare il mistero della pura esistenza. Il mistero di un essere assoluto; ossia, del tutto privo di determinazione specifica. Eppure sempre presente nelle cose determinate che incontriamo ogni giorno. Un’arte realmente metafisica, insomma; e di natura specificamente ontologica. E tutto questo Magritte lo dice con la massima esplicitezza; in copiose pagine di riflessioni che tutti dovremmo leggere ! Ché, “arte” è per lui solo ciò che riesce a svuotare le immagini (di cui pur si deve fare uso) dal senso che esse hanno per ognuno di noi (indipendentemente dal livello più o meno raffinato di riconoscimento concettuale del loro significato), e le riconsegna allo sguardo innocente in grado di incontrare il loro insensato esistere. Ovvero, il miracolo del loro gratuito e ‘solitario’ esserci.

La riflessione di Magritte sembra già chiaramente esplicitata dai suoi quadri: che significato ha secondo Lei prestare attenzione anche alle sue riflessioni teoriche?

Certo, Magritte è un grande pittore; ma, se i suoi quadri mostrano qualcosa, questo qualcosa è ciò che raramente il senso comune riesce a riconoscere per quel che esso davvero è. E in ogni caso questo qualcosa, se viene davvero mostrato dai quadri di Magritte (come io credo), viene comunque mostrato per un motivo squisitamente
filosofico. È d’altro canto lo stesso Magritte a dircelo, esplicitando alcune delle sue ossessioni fondamentali. E scrivendo pagine su pagine con non minore intensità di quanto avesse fatto e continuasse a fare con tela, colori e pennello. È Magritte stesso a non considerare più l’arte come puro esercizio di stile: l’arte è per lui una
possibilità; la possibilità di provocarci all’essere di tutto ciò che esiste e ai suoi paradossi. Di richiamarci ad una destinazione metafisico-ontologica – quella, appunto, che l’atteggiamento quotidiano sembra destinato a rimuovere. Perciò è utile un approccio filosofico all’esperienza magrittiana. Se è vero che il suo gesto artistico è un gesto filosofico, allora chi meglio della filosofia può aiutare a disporsi al cospetto della loro potenza incantatoria (senza che ci si abbandoni cioè a ben più comodi psicologismi… magari di bassa lega) ? D’altronde, le sue opere mostrano davvero quel che mostrano. Ovvero, davvero esibiscono i significati che di fatto esibiscono (e non potrebbero farne a meno). Ma ciò che in ogni esser vivente (tra quelli manifesti) l’artisticità mostra – almeno, secondo Magritte – è appunto il semplice “esser negato” di ciò che in essa e per essa comunque si mostra.

Magritte non è certo l’unico pittore che nel Novecento ha voluto proporre nella sua opera e nella sua riflessione la propria concezione del mondo e delle cose (pensiamo a Chagall o a Kandinskij), anzi possiamo dire che quasi tutta l’arte del periodo è al contempo riflessione sull’arte. Qual è a suo vedere l’originalità del contributo di Magritte?

L’originalità di Magritte, in un contesto che sarebbe sfociato nella radicalizzazione kosuthiana (là dove l’arte si sarebbe appunto risolta nella propria definizione) consiste innanzi tutto nell’essere riuscito in una operazione doppia. Abbiamo già detto che la sua intenzione è rigorosamente filosofica; ma l’oggetto da lui artisticamente prodotto non è un trattato di filosofia, e neppure è una definizione dell’arte. Al contrario, i propri oggetti artistici devono, ai suoi occhi, riuscire a mettere tra parentesi i concetti da cui non possono comunque prescindere. Devono mostrarsi; devono mostrare il mistero della ‘somiglianza’. Devono inscriversi nel vero e proprio a-mentale. Certo, nel Novecento si sarebbe diffuso anche un approccio specificamente concettuale. Ma non si tratta di quanto veniva tentato da Kandinskij e Chagall, da
Klee e Duchamp. Anche se in Duchamp la cosa sarebbe stata comunque più ambigua. In tutti questi artisti infatti (così come in Magritte) l’intenzione rimane quella di dar forma a quella che viene ancora intesa come un’opera d’arte. Certo, tutti costoro avrebbero scritto pagine straordinarie per spiegarci da quali ossessioni muovesse il loro fare; ossia, quale fosse l’intenzione filosofica di fondo sottesa al loro fare materiale. Grande è la consapevolezza guadagnata nel Novecento dai grandi protagonisti del mondo dell’arte. Ma tutto ciò non ha nulla a che fare con la pretesa che sarebbe cresciuta solo nella seconda metà del Novecento, relativa appunto all’aspirazione, da parte dell’arte, a trasformarsi in filosofia. Certo, prima di Kosuth, già Malevic avrebbe prefigurato tale situazione; ed anche Beuys avrebbe voluto trasformare il fare artistico in una vera e propria possibilità per la rideterminazione dell’umana esistenza – la quale avrebbe anche potuto risolversi in una semplice espressione verbale. O magari risolversi in un vero e proprio trattato di filosofia sociale.

Sappiamo che insigni filosofi contemporanei (Foucault, per fare un esempio) hanno riconosciuto nei confronti di Magritte un debito teorico importante: come giudica questa penetrazione di Magritte nella riflessione filosofica? Puramente
strumentale o una feconda linea di pensiero?

Magritte avrebbe stimolato moltissimo gli intellettuali europei dell’epoca. Il suo confronto con Merleau-Ponty è noto. La filosofia del Novecento (della seconda metà del Novecento) avrebbe cioè individuato in Magritte una potenza rivoluzionaria che pochi altri artisti avrebbero saputo rivelare. Foucault scrive un bellissimo sulla ‘pipa’ magrittiana; insomma, i veri pensatori non avrebbero potuto rimanere indifferenti di fronte ad una radicalità estetica come quella magrittiana – che sarebbe apparsa tanto più radicale quanto meno confondibile con una semplice provocazione stilistica o formale. Anzi, Magritte scegli di essere perfettamente classico nell’uso del colore e del disegno; non si concede cioè a facili estemporaneismi….. non si affida cioè alla rabbia di un gesto astrattamente informale. Ma proprio perciò può apparire con maggior chiarezza e con concreta potenza icastica la radicalità del suo assunto estetico: ovvero l’inaudita potenza di un intento che è sempre estetico e metafisico ‘in uno’.

venerdì 4 maggio 2007

IL MISTERO DELL'ESISTERE

In questo volume, Massimo Donà, filosofo che ha sempre diviso i suoi interessi tra l’ambito teoretico e quello estetico, si concentra sull’analisi di una delle figure più rappresentative della produzione artistica del Ventesimo secolo: René Magritte. Un artista belga la cui produzione rappresenta forse una delle icone più significative dell’immaginario contemporaneo. Ma l’autore si concentra qui soprattutto sul ‘pensiero’ di Magritte, mostrando come la qualità teorica degli scritti dell’artista belga non sia affatto inferiore, ma forse addirittura superiore, a quella della sua produzione pittorica.
In questo agile, ma nello stesso tempo intenso volume, si fa dunque vedere come, nella riflessione teorica di Magritte, vengano condotti alle loro estreme conseguenze alcuni nodi speculativi che accompagnano forse da lungo tempo un importante filone del fare artistico occidentale. E si mostra come la sorprendente potenza filosofica di Magritte renda la copiosa quantità dei suoi scritti essenziale interlocutrice di altre grandi voci del secolo appena terminato: da Freud a Merleau-Ponty, da De Chirico a Breton; ponendo il Magritte ‘filosofo’ in stretto ed essenziale rapporto anche con un filosofo della statura di Schopenhauer – che già nell’Ottocento prefigurava alcune delle grandi questioni venute alla luce in tutta la loro effettiva potenza nel secolo cosiddetto ‘breve’.
Insomma un testo che aiuta il lettore a familiarizzare con il senso essenziale di ciò che siamo soliti definire “esperienza estetica”; e dunque con l’enigma costituito per ognuno di noi da un fare assolutamente stra-ordinario come quello dell’arte; ovvero, con le sue magnifiche ma nello stesso tempo essenzialmente ‘incomprensibili’ produzioni. Ovvero con opere che, come sapeva bene Magritte, di tutto parlano, fuorché dei contenuti che purtuttavia esse sembrano comunque impegnate a rappresentare.
Pochi, infatti, come l’artista in questione – e in queste pagine di Donà la cosa viene messa in luce con la massima chiarezza –, sono riusciti a comprendere che la posta in gioco, nella vera produzione artistica, non è mai qualcosa di relativo alla psiche umana (da cui il suo rifiuto di dare alla propria opera un significato psicoanalitico, e dunque la polemica con Breton), o di comunque esplicativo in ordine al senso che il mondo di fatto riveste per ognuna delle nostre vite, ma chiama in causa piuttosto ciò che Magritte stesso definisce il misterioso silenzio del mondo. Ovvero, l’enigma essenziale costituito non tanto questo o quel modo dell’esistere, ma del semplicissimo fatto che qualcosa ‘sia’. Mostrando per ciò stesso come arte e filosofia, in un certo Novecento, formulino da ultimo la stessa inquietante e forse inutile domanda , relativa appunto al “perché qualcosa, piuttosto che niente ?”

Titolo: Il mistero dell’esistere. Arte, verità e significanza nella riflessione teorica di René Magritte
Autore: Massimo Donà

ISBN 8884834325 - pp. 150
Euro 13,00